Ho un canto aperto per questa mia città
di don Leone
Grazie a don Luciano e a don Carlo che mi hanno fatto dono e privilegio di presiedere e predicare a questa solenne celebrazione. Grazie ai sacerdoti tutti, alle religiose e Ausiliarie diocesane, alle comunità di fede, alle parrocchie e agli oratori, al Centro della Famiglia Decanale, ai gruppi Scouts e alle molteplici associazioni di volontariato del territorio. Ringrazio e saluto a nome di tutti le rappresentanze, politiche, amministrative, militari ed istituzionali in genere. Un particolare saluto a don Andrea che, come me, si prepara a lasciare la città per un nuovo incarico pastorale. Una preghiera affettuosa e grata per don Giovanni e don Agostino che celebrano ora la liturgia celeste. Ogni città ad un primo sguardo potrebbe assomigliare ad un agglomerato di case, ad un graticcio di vie e di piazze, a gruppi ed insiemi di persone che la abitano e la popolano. Ad un plesso di interessi e di bisogni. Così potrebbe essere anche per la nostra città. Eppure una città è qualcosa di più, è un corpo vivente, un organismo vitale dove le parti sono chiamate a stare bene insieme, a comprendersi e a lavorare insieme, a rispettarsi nei ruoli e nei compiti diversificati. Perché messi insieme siamo più di una somma di parti, dobbiamo esserne certi. Ecco che allora una città vive, e poi spera, addirittura osa pensare, ma soprattutto non deve smettere mai di amare. Una città anzitutto vive, ecco il primo verbo che ne dice una qualità irrinunciabile, direi essenziale. Vive, una città, perché vivono coloro che la abitano. I ragazzini che affollano le scuole e, in queste settimane, i centri estivi della città. Una città vive perché in essa vivono famiglie e persone singole, giovani come pure anziani. Ricchi e poveri, fortunati e persone che si sentono un po’ maltrattate dalla vita. Una città deve imparare a vedere, come pure ad ascoltare, queste differenti presenze. Anche le presenze più nascoste, portatrici di problematiche e persino a volte difficoltose. Una città è ambivalente: se è un luogo dove disagio e solitudine possono trovare più facilmente delle risposte – nella ricchezza di reti istituzionali o di altro genere – essa è anche un luogo dove il disagio e la solitudine, se inascoltati, proliferano come un virus fino a diventare insopportabili ed anche ingovernabili. Ecco che vivere e ben-vivere sono un compito ed una responsabilità che ci riguardano in solido, nessuno escluso! Una città poi spera. Abbiamo imparato in questi ultimi anni e sulla nostra pelle che la speranza non è un deresponsabilizzante auspicio, un augurio fatto al risparmio. La speranza è una determinazione, un coraggioso approccio della vita, una promettente ostinazione delle persone. La speranza non dice rassegnata, va bene così, semmai lotta, affronta, guarda in là, come pure ricuce strappi aperti e cura ferite presenti. Essa domanda un sacrificio spesse volte superiore alle nostre esigue forze; eppure senza questa speranza noi vivremmo di ogni cosa solo l’aspetto più facile e superficiale. Una città sa pure pensare, è autorizzata, anzi è spinta a pensare. Ed è un gesto corale. Sinodale, persino. Non riduciamoci a pensare nel chiuso dei nostri gruppi e nascosti nelle ristrettezze dei più particolari interessi di bottega, ma nell’agorà spaziosa e visibile del bene comune e di una visione piena dell’uomo e dei suoi valori. Pensiamo insieme, anche se è più faticoso e qualche volta ci da’ l’impressione di non raggiungere subito gli obiettivi sperati. La prima forma della carità è la politica, così ci insegnava il grande maestro e papa, san Paolo VI, e così uomini di grande talento politico come l’amato Giovanni Bianchi ci hanno testimoniato negli anni. Il pensiero sta all’inizio della generosità sociale, a condizione però che ciascuno metta nel barile della condivisione il meglio e non il peggio che ha. L’amicizia fra avari, recita un noto aforisma, è un terribile gioco d’azzardo, perché ciascuno gioca a mettere il meno possibile. Ma l’amicizia fra persone probe, generose ed oneste, costruisce una bella convivenza, un vivere civile che fa luce a tutti, come la lucerna del Vangelo posta in cima al lampadario e non nascosta sotto il moggio. Aggiungo che in un corpo sociale il pensiero è chiamato a farsi persino profetico e non semplicemente programmatico-organizzativo. Profezia, per una città che porta il nome del suo santo patrono Giovanni Battista, significa chiamare le cose con il giusto nome e saper guardare oltre il proprio naso. Pensare è accettare che anche altro sia portatore di un pensiero, che ci sia un pensiero che sopravanzi il nostro pensiero o lo completi, che si debba “diminuire” per vedere crescere l’altro e per poter crescere insieme, aiutandoci a non cadere nei fuochi incrociati delle ideologie di schieramento. Da ultimo una città ama. Il vertice di tutto deve restare la carità. La tradizione cristiana regala a sé, come anche al mondo laico, questa suprema esigenza (charitas urget nos). Ciò non avviene per un moto spontaneo, ma chiede un esercizio costante ed un’amorevole cura. Se una città, infatti, non allena i suoi all’amore, alla generosità dell’impegno e delle relazioni, fatalmente la città si riempie di terribili egoismi e pericolosi tornaconti. A differenza di un pensiero dialettico che risolve la realtà del vivere insieme nel confliggere delle parti, la vera composizione degli interessi si fa amando qualcosa che non è solamente mio ma che appartiene anche all’altro, che ci appartiene insieme. Grazie a tutti coloro che rendono questa sensibilità una realtà operativa, quotidiana e solidale. Proprio questo sguardo, a un tempo contemplativo e amante, ci è chiesto sempre daccapo, per noi, per questa amata città, per tutti coloro che domandano che la loro voce sia ascoltata e non resti inaudita!
Il prevosto di storica memoria, don Luigi Olgiati, richiamava incessantemente a una Sestesità di cui si sentiva ad un tempo testimone e “padre nobile”. Di certo i tempi sono mutati, come pure le caratteristiche di questa nostra città; resta però vero che senza un’anima la città non esprime tutto quello che può e deve. A noi, a voi tutti, è affidato questo impegno e questo appassionante compito.